Dyson
Racconto solarpunk, testo finale del corso Scrivere Climate Fiction
Tra i fischi del vento e il rombo del mare grosso, si sente un clic che non promette niente di buono. Desda, nuda davanti allo specchio, si concede ancora un attimo di dubbio; chiude gli occhi per prolungare la sensazione della doccia calda e del bagno pieno di vapore profumato di iris. Quando li riapre, le gocce si stanno asciugando con un brivido dalla pelle. Ritenta: di nuovo clic.
Quel mattino, al risveglio, aveva sentito la bora ululare attraverso le vie del quartiere. Dalla finestra aveva visto, oltre la scogliera di Miramare, le torri delle colonne eoliche, dritte due trecento metri al largo, che ruotavano su sé stesse a piena velocità. Iorio rincasava imbronciato, prendendosela con gli spruzzi delle onde che incrostavano di salsedine le turbine eoliche. «L’ho sempre detto che dovevamo metterle da un’altra parte.»
«Ma sono così belle lì,» aveva risposto Desda, con un ultimo sguardo alla baia. Poi aveva controllato sul tablet lo stato della batteria, e trovandola quasi completamente carica, aveva acceso il boiler elettrico prima di andare a fare colazione.
Era il primo giorno di autentica bora dall’inizio dell’estate. Quando Desda era bambina ce n’erano fin troppi, ma ormai di queste giornate gliene restavano solo due o tre ogni anno. Aveva preparato l’abito corto, poi aveva tirato fuori nastri e forcine, la spazzola tonda e il vecchio asciugacapelli di sua nonna.
Clic, e nient’altro. Dopo una dozzina di tentativi non le resta che prendere atto. Inizia a sentire freddo, mette su una maglietta e va in cucina. Iorio sta bevendo il ginseng e leggendo il feed dal tablet. «Tu che ne capisci di turbine…» Iorio scruta l’asciugacapelli. «Cosa dovrei fare? Non ho neanche un cacciavite,» protesta, «Chiedi a Viola.»
Viola, la vicina di pianerottolo, ha una cassetta degli attrezzi. Sotto lo sguardo distratto di Iorio e quello apprensivo di Desda, svita il rivestimento esterno dell’asciugacapelli, sfila la guaina e trova al di sotto un altro rivestimento di plastica. «Ma che cavolo…»
Riprende a svitare un totale di dodici viti, che Desda si affretta a raccogliere in una scatola di latta. Sfilata anche la seconda guaina, ecco il motore: i pezzi sono incastonati l’uno nell’altro, precisi al millimetro, e una struttura di plastica li mantiene al loro posto. Viola li interroga per un po’. In quella matassa densa di componenti è quasi impossibile capire cosa è collegato a cosa. «Forse serve una persona più esperta…» ammette.
Fuori di casa, Desda e Viola si incamminano nei vicoli stretti, dove la bora non ti porta via. Desda ha avvolto un turbante di cotone in testa, ha lasciato perdere l’abito corto e si stringe in una spessa giacca a vento. Viola le parla di un uomo che sta corteggiando, ma gran parte delle sue parole si perdono nel vento che le sparge nell’entroterra come semi.
L’officina di quartiere è vicino a Porto Vecchio, in un palazzo storico della Marina militare, con alti soffitti affrescati e volte a botte sopra i tavoli da lavoro e la biblioteca degli attrezzi. Si sono sistemate a una postazione libera, Viola va a prendere l’amperometro e torna insieme a un giovane stagnino di nome Porzio.
Porzio si avventa sull’asciugacapelli («Che pezzo! Che pezzo!») sdraiato sul tavolo da lavoro come su un lettino operatorio. Sotto gli occhi quasi incompetenti di Desda, ricomincia a smontarlo, fino a farne a un campo santo di componenti allineati sul piano.
«Era necessario smontarlo tutto?»
«Forse no, ma è interessante. L’arnese è stato prodotto prima della progettazione modulare, ognuno di questi pezzi è nato per essere perfettamente incastrato negli altri come in un sudoku, fuori di qui sono completamente inutili.» Infine Porzio pronuncia la sua diagnosi: «Il problema è qui nel motore, si è spezzata una parte del perno.» Desda guarda il perno senza vedere niente. «Andiamo di sopra.»
Al piano superiore c’è la biblioteca dei componenti meccanici ed elettrici. È decisamente disordinata, ma Porzio sa dove cercare. Con il pezzo guasto tra pollice e indice, apre diversi cassetti e lo confronta con altri pezzi di recupero. L’ispezione è veloce, poi passano nella stanza di Gudrun. È una sala senza affreschi né cassetti, con un computer da parete e numerosi contenitori di miscele bioplastiche e plastiche di riciclo.
Gudrun è la stampante 3D di precisione, a programmarla oggi c’è un tizio di nome Flavio. «Sei la sorella di Iorio delle turbine! Quasi non ti riconoscevo con quello in testa. Beh, vediamo un po’…» Flavio ispeziona il perno, mentre Gudrun sta finendo di stampare un impianto ortodontico. «Effettivamente qui ne manca una parte, vedi?» Desda fa di sì con la testa. «A rifarlo ci mettiamo un minuto, però occorre il modello intero, dovresti chiederlo al produttore.»
Mentre scendono le scale, Viola stringe il gomito di Desda. Il suo scoramento si avverte anche a distanza, come polline acido dell’aria. Tornano al tavolo di lavoro. «Non preoccuparti, basta un’email e lo ripariamo. Chi è che l’ha prodotto?»
Desda prende l’involucro più esterno dell’asciugacapelli. «Qui c’è scritto Dyson.»
«Mai sentito nominare,» risponde Porzio. «L’indirizzo?»
«Non è scritto.»
«Come sarebbe non è scritto?» Interdetto, Prozio esamina a sua volta l’involucro, poi è il turno di Viola, convengono entrambi che manca l’indirizzo di questo Dyson.
Porzio ferma una donna in tuta da lavoro: «Per caso conosci un Dyson? Che ha fatto un asciugacapelli…»
«Uhm, non mi pare. Hai l’email?»
Porzio fa di no. La donna, capelli corti e viso aguzzo, sposta lo sguardo tra Desda e Viola, e poi al pezzetto di perno che Porzio ha ancora in mano. «Non è che voi tre mi state tirando in qualcosa di losco?»
«Ma no,» Desda le mostra l’involucro, «È un asciugacapelli, vedi?»
La donna lo ispeziona, legge a sua volta. «Effettivamente manca l’indirizzo.»
Flavio non ne sa niente, fa una ricerca nella rete locale, ma di Dyson non ce ne sono. «C’è un Tyson.» «No no, è proprio una D.» Posta un messaggio in un forum di stagnini e altri tinkerer, e anche in uno di oggetti antichi. «Aspettiamo…»
Di sotto, Porzio ha radunato un piccolo gruppo di persone. «Ehi, qui c’è un Dyson!» esclama uno con un tablet, «Però ha fatto un aspirapolvere…» Porzio guarda, poi si rabbuia. «Nessun indirizzo.»
«Io non capisco,» sbotta Desda, si è seduta sullo sgabello e ha svolto il turbante che aveva in testa, liberando i capelli ormai completamente asciutti, crespi, le onde castane rivolte in tutte le direzioni. «Come dovrei fare a riparare la mia roba, eh? Se non ti fai trovare da nessuna parte che senso ha produrla? È come cucinare per qualcuno e poi non dargli le posate!» e in quel momento le viene in mente un’ultima possibilità.
La nonna è sempre il forma, anche se ha due femori artificiali e porta la parrucca. Ha cucinato non solo per Desda, Viola e Porzio, ma per tutta la residenza. Nella sala da pranzo è radunata una decina di residenti, alcuni hanno l’età della nonna, altri sono giovani o ragazzi. Siedono attorno al lungo tavolo, e mentre mangiano chiacchierano in un mezzo vociare continuo. Quel suono nella mente di Desda è lo spirito stesso della residenza: negli spazi comuni non c’è mai davvero silenzio, e durante il pranzo si dimentica della bora che fuori ha continuato a soffiare per tutto il mattino.
Finito il pranzo, alcuni residenti sparecchiano. «Andiamo a fare una passeggiata,» dice la nonna, «devo ricaricare la batteria dell’insulina.»
Nel cortile interno, al riparo dal vento, Desda e la nonna procedono a braccetto, girando intorno a una coppia di pini marittimi e a un piccolo orto, fino a quando il dispositivo medico innestato al fianco della nonna inizia a lampeggiare di verde.
«Per caso ti ricordi dove hai preso il tuo vecchio asciugacapelli? Dovrei rintracciare questo Dyson…»
«Beh, Dyson non è una persona, è una specie di cooperativa di produzione.»
«E dove la posso trovare?»
La nonna le ha preso la mano e le rivolge uno di quei sorrisi smaliziati che fanno a volte gli anziani quando li si interroga sulle cose della loro gioventù. «Se vuoi un consiglio, Desda, ti conviene lasciar perdere. Dyson si trova molto lontano da qui, ammesso che ci sia ancora e che ti vogliano aiutare. Una volta si mettevano i nomi alle cose prodotte anche se non si aveva nessuna intenzione di ripararle. Se anche trovassi Dyson e gli portassi l’asciugacapelli, ti diranno solo di buttarlo via e comprarne uno nuovo.»
Desda si è fermata. «In che senso buttarlo via, buttarlo dove?»
La nonna alza le spalle. «Via.»
La bora sta calado e il rombo del mare sulla scogliera si fa sempre meno distinto. Nella sala del pranzo, Desda trova Porzio che ripone i piatti puliti. Prende la borsa con i pezzi dell’asciugacapelli e gliela porge. «Dimmi una cosa: sai farne una lampada?»